“Mia cara Elizabeth, un essere umano, persino mediocre come me può arrivare così in alto da riuscire a percepire il mondo degli angeli, eppure c’è qualcosa dell’uomo che fa impallidire anche questi esseri di luce: la possibilità di infilare la testa tra le nubi e mantenere i piedi fermamente sulla terra. Mio figlio Valentine non è morto, sta solo sollevato, sulla punta dei piedi, per raggiungere una nuova visione.”
(dal film Il libro delle visioni)
Domenica scorsa, non appena mi sono svegliata, ho sentito il desiderio impellente di ritornare in quel luogo. Più che di un desiderio, si è trattato di una spinta, di un richiamo. Forte, anzi fortissimo.
Ci ero già stata un anno fa e lo avevo scoperto guardando l’opera prima di Laura Samani, una giovane regista triestina. Piccolo corpo, così si chiama questo film viscerale e struggente. Un film girato nella mia terra in lingua friulana e in vari altri dialetti che vanno dal gradese al maranese, dal concordiese al triestino.
Un film già per questo motivo coraggioso, oltre al fatto che tratta la tematica dolorosa, ostica, inaccettabile delle morti dei neonati. Quei neonati che, non avendo avuto il tempo di essere battezzati, erano destinati al Limbo e di cui la mamma avrebbe sentito le urla strazianti di questo vagare nella dannazione, senza poterli mai incontrare, nemmeno dopo la morte.
In tutta la zona prealpina che dal Friuli arriva fino in Francia, vengono così costruiti dei Santuari à Répit, dei santuari del respiro. Dei luoghi dove si giunge dopo un lungo pellegrinaggio a piedi e con il piccolo avvolto in stracci, tenuto in braccio o posto nelle carriole o in cassettine fatte alla meno peggio. Si dice che qui, con un rito particolare svolto da due o più donne e alla presenza di testimoni, il piccolo venisse risvegliato cosicchè, nell’esalazione di un flebile, ultimo, respiro potesse essere battezzato e sepolto in terra consacrata.
Accadeva anche che ciò non succedesse e allora i neonati venivano sepolti tutt’attorno alla chiesetta con la testa rivolta alla grondaia in modo tale che l’acqua che scendeva li potesse battezzare tutte le volte che avrebbe piovuto.
Stefania Piloni, nella sua lezione sulle piante che ci parlano, ci ha raccontato che è il Fico ad essere l’albero che protegge i non nati. Esso veniva piantato fuori dai cimiteri e sotto alle sue fronde venivano sepolti i bimbi nati morti così da essere allattati dal frutto dolce e lattiginoso, come il seno della mamma. Come l’acqua della grondaia.
Una volta arrivata lì, mi guardo attorno per vedere se per caso trovo questo albero e mi prometto di piantarne uno la prossima volta che salgo.
Che cosa mi aveva chiamata di nuovo in quel luogo? Come la prima volta, trovo un uccellino nello stesso punto; il tempo è pessimo, ma almeno la strada non è bloccata dalla caduta di tronchi. C’è una nebbia fitta e poi inizia anche a piovere.
Continuo a guardare gli alberi tutt’attorno: hanno curvature e intrecci strani e allora mi immagino che da quel seme che non è cresciuto come carne si sia formato, al contrario, un albero, tanti alberi quanti sono stati i bimbi seppelliti, tutti abbracciati per coccolarsi e proteggersi.
Poi, due giorni dopo, alla tv inizio a vedere, senza saperne la trama, Il libro delle visioni. Anche qui si parla di bambini, di maledizioni che impedirebbero alle donne di mettere al mondo i loro figli e di storie del presente connesse al passato, esattamente come racconta Mariacristina a proposito di Dante e della Divina Commedia.
Tutto d’un tratto vedo le radici degli alberi divenire corpi che si muovono e Maria che parla con i morti va proprio lì ad affidare il suo piccolo nato feto.
Il dottore annota che “quando la natura espelle il contenuto dell’utero prima del tempo il processo è chiamato ‘amblosis’, dal greco, riferendosi ai germogli della vite che cadono prima di dare nuovi tralci”.
La protagonista poi si chiama pure Eva, come me. È un medico, anzi una medichessa costretta ad abbandonare improvvisamente la professione a causa di una grave malattia. Eva aspetta anche un bambino ma il medico, vista la sua condizione, cerca di convincerla ad abortire.
Lei non lo ascolta e segue il suo sentire, sa che il piccolo non potrà mai farle del male.
Decide di dedicarsi allo studio della Storia della Medicina e si imbatte in un manoscritto, che dà il titolo al film, scritto da Johan Anmuth, medico prussiano del XVIII secolo, che contiene le speranze, le paure e i sogni di più di 1800 pazienti.
Il film è un percorso di Salutogenesi, una narrazione di ciò che è la Scuola Igea, un rapporto sulla relazione medico-paziente.
“Vorrei capire”, afferma Eva “quando i medici hanno smesso di ascoltare i pazienti. Quando i loro sogni e la percezione del corpo sono diventati irrilevanti.
Non era così prima dell’800 e forse l’opera di Anmuth può dimostrarlo. Guarda i modelli anatomici del ‘700 in questo museo, sono perfetti. A quel tempo, lo studio del corpo, ha fatto passi da gigante. Erano in grado di ricostruirlo in ogni dettaglio ma allo stesso tempo i medici hanno smesso di vedere ai loro pazienti come persone, cominciando a occuparsi solo del corpo. Il corpo è diventato un oggetto su cui potersi esercitare. Perchè abbiamo varcato il confine della pelle?”
Ma il film analizza anche il rapporto fra anima e corpo, la relazione fra i sogni e la realtà e quella fra la vita e la morte. Il fatto che nulla si possa esaurire nel proprio tempo. “Quello che non ci siamo mai detti”, afferma la protagonista, “non è andato perduto. Ogni passo, ogni errore, ogni segreto mi ha portata qui. Tutte le emozioni hanno trovato la strada verso altre persone, nella speranza di scoprire nuovi mondi, di trovare nuove persone da amare”.
Prima di andarmene l’occhio mi cade a terra, poco più in là della porta del santuario, su uno scarabeo verde. È morto ed è a pancia in su. La viridis che s’è andata ancora prima di diventare evergreen.
Eppure io lo percepisco ancora come un altro simbolo, non così tragico. Un indizio di qualcosa che va svelato o se non altro raccontato ancora e ancora.
Lo scarabeo, portafortuna dei giochi d’infanzia ma soprattutto simbolo sacro degli egizi, metafora della vita, della creatività e del rinnovamento. Della virilità per l’appunto. Questo insetto, oltre ad essere posto dove l’ho trovato, in segno di protezione, veniva impiegato anche nei riti di sepoltura per difendere dal male e dalle forze negative l’anima del defunto.
Lo “scarabeo del cuore”, così lo chiamavano, in quanto posto fra le fasciature del corpo mummificato che lo avrebbe aiutato ad affrontare il viaggio nell’aldilà. Simbolo di morte ma anche di rinascita.
Grondaie, acqua, fichi, uccellini e scarabei. Dopo quella visita, e forse proprio da quel velo che divide i due mondi e che si vede nel libro delle visioni sin dall’inizio, sono poi arrivate a me diverse visioni e curiose sincronicità. E ancora adesso sento quella voce che chiama, quel ‘qualcosa’ che chiede di essere approfondito, narrato proprio come diceva Maria al dottore nel film: parlare dei morti, raccontarli perché non vengano dimenticati e venga così ridata loro un’anima.
di Eva Comuzzi