Stava per farsi la luna e sarebbe arrivata anche la primavera.
Io contavo i giorni come si fa per ogni attesa. Come si fa quando sta per nascere qualcuno. Dieci, al massimo quindici giorni, mi avevano risposto. Pochissimo tempo. Così poco che non ci si crede. Non ci si può credere, soprattutto quando si ha di fronte una persona che, nonostante abbia qualcosa che la soffoca dentro, che mano a mano comprime tutto invertendo anche la funzionalità degli organi, ti dice che sta bene. Che è pronta per la nuova cura e per ritornare a casa. “Eva, non preoccuparti”, è stata l’ultima frase compiuta pronunciata con un filo di voce, ma assertiva.
Intanto la luna nuova mi metteva in una sorta di out out e io alternavo preghiere e meditazioni per ottenere un miracolo o, almeno, per tenere lontano il dolore fisico dalla zia. Nonostante la luna avanzasse e si facesse sempre più grande e tonda lei non mollava. Non aveva proprio voglia di andarsene e nemmeno noi familiari, — vista la tempra e visto quello che aveva superato —, lo avevamo preso in considerazione. Il suo sorriso colorato su una pelle di porcellana, la sua energia e la sua bellezza erano sempre presenti. E sì, era decisamente più viva di molte persone che vedevo attorno a me. Erano oramai quattro anni che cercava di fermare questa macchia nera esondata un po’ ovunque nel basso ventre e che ora stava risalendo ad una velocità inimmaginabile. Uno tsunami. Anche quel termine “mucinoso” che accompagnava la tipologia di cancro diagnosticato, mi riportava alle mucillagini. A qualcosa di sporco e schiumoso diffusosi chissà quando negli organi cosiddetti d’acqua, quelli delle emozioni. E mia zia con le emozioni aveva sempre fatto fatica. Aveva sempre cercato di far fronte alle esondazioni contenendo con spesse dighe. Dighe che poi con un intervento durato più di dieci ore avevano esportato. Era disposta a qualunque cosa pur di vivere. Anche a due stomie al rene e all’intestino. “Cosa vuoi che sia”, mi diceva, “io la mia vita l’ho fatta. Adesso basta che tutto rimanga fermo. Almeno per sei anni”. Chissà poi perché sei anni, quando dall’altro lato ai dottori diceva che doveva almeno raggiungere i cent’anni della sua di zia! Sembrava che tutto andasse bene, che davvero ogni cosa avesse deciso di rimanere al proprio posto. E comunque lei era sempre più bella e non pareva disturbata da nulla, cosa che lasciava basiti anche i medici. Non un segno sulla pelle, nessuna stanchezza e la voce sempre stridula. E poi? Poi, cosa è successo? Cosa accade in questi casi? E, soprattutto, lei cosa sentiva veramente? Era così determinata o era così staccata dal sé da non rendersi conto nemmeno di quello che le usciva dalla bocca? O voleva solo rasserenare noi? Rimarrà un mistero. Rimarrà tale nonostante gli sguardi che ogni tanto mi lanciava o le cose che mi domandava e poi, forse, evitava di sapere. Come quando mi mandava dai medici, che chiedevano un confronto con un familiare, e con la sua tempra mi ribadiva “Se dicono che devo andare al creatore dimmelo subito eh, che io non sto qui, torno a casa. Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto e via.”
Ma nessuno, neanche il personale le ha mai detto nulla, non solo perchè non ha più chiesto ma perchè, nella drammaticità della situazione, anche loro ipotizzavano un “Chissà… Da Marinella possiamo oramai aspettarci di tutto”, così come era stato fino adesso. “Congiura del silenzio” l’ha chiamata Paola Argentino. Una congiura che è stata rotta improvvisamente e davanti ai miei occhi, con l’arrivo di una dottoressa che, con molta scioltezza, ci ha detto che doveva fare un semplice sondaggio. E così, fra una banale domanda di possesso o meno della carta d’identità elettronica e l’altra, le è stato brutalmente chiesto se avesse intenzione o meno di donare le cornee, visto che erano l’unica parte sana e visto dove stava per essere trasferita. Non potevo crederci. Non sono riuscita a proferire una parola, non potevo intervenire era troppo tardi, ero quasi paralizzata. Non potrò però scordare mai il viso della rassegnazione della zia che, dopo aver volto lo sguardo in basso, alle lenzuola, ha avuto la prontezza di ribattere con: “Io piuttosto volevo invece chiederle quando mi arriverà l’accompagnatoria”. Mentre lei deviava io uscivo, oltre che per prender tempo (cosa le avrei detto quando saremmo rimaste sole? Mi avrebbe chiesto qualcosa? Si sarebbe sentita tradita? I medici potevano aiutarmi vista la loro esperienza?), per recarmi dal medico di reparto per sapere che cosa stesse accadendo. Mi avevano rassicurato che in questi casi si dice la verità solo se un paziente la chiede e io, giusto o sbagliato che sia, avevo detto che preferivo non sapesse o, al massimo che mi insegnassero, in caso si fosse rivolta a me, quali parole usare. Sempre che esista un modo giusto per farlo… “Ci scusi tanto, non sapevamo, è la prima volta che succede, faremo una segnalazione”. E quando al ritorno, alla stessa dottoressa, ho chiesto come si fa a rivolgersi in quel modo ad un malato terminale, che sembrava le stesse elencando il menù del pranzo, che nemmeno si è confrontata con me per sapere se lei sapesse o meno, la risposta mi è arrivata dai suoi occhi lucidi che si sono uniti ai miei. E dopo un attimo di silenzio le prime parole sono state: “non lo sapevo… mi dispiace… me ne sono accorta dopo, quando la signora ha cambiato discorso. Quando sì è ancora giovani è dura accettare, ma…” Si può entrare così sprovveduti in un reparto dove si dovrebbe camminare sempre in punta di piedi? È così che si diventa nella routine giornaliera dominata dalla vista della sofferenza? Asettici e distaccati o, in altri casi violenti e rabbiosi? Quante persone, e questo lo dico anche pensando al Magister Salutis, hanno davvero una vocazione alla cura, alla grazia e alla delicatezza? Ma soprattutto, che cosa bisogna fare per mantenerle, per non lasciarsi sopraffare da malesseri e depressioni che portano poi a queste forme di difesa? Le parole sono finestre (oppure muri), aveva detto Maria Pia Valoti, nel settimo modulo, dedicato alla vita e alla morte, suggerendoci un libro di Marshall Rosenberg. Ed Elsa Veniani, raccontando della sua esperienza, aveva proseguito poi con “ogni atto comunicativo ha un valore emotivo”. Al mio rientro nessuna domanda. Era solo felice di andare ai piani alti per iniziare la nuova terapia. Ora grazie al sondino aveva smesso di vomitare e diceva di sentirsi meglio. Aveva iniziato anche a dormire, cosa molto preziosa per lei, un po’ meno per me che intravedevo l’inizio del trapasso. “Vedrai che bello che è su, che non c’è questa confusione e ho delle infermiere solo per me e potete stare quanto volete e venirmi tutti a trovare”. Ma poi una volta salita all’Hospice, luogo che ho trovato incredibilmente magico e rilassante, con persone empatiche e devote alla cura, il sonno è diventato sempre più frequente e continuativo e anche la voce ha iniziato a perdere il suono, lasciando spazio solo ai cenni. Come quando si è neonati. Anche se lì, nel principio, la voce c’è, eccome! Sempre la dottoressa Pellegrini ci ha raccontato che San Martino è il patrono degli Hospice. Delle cure palliative. San Martino che divise il suo mantello, il pallium in latino, per darlo a un mendicante ammalato e infreddolito. Un racconto che ora mi riporta alla proposta fatta alla zia di portarle una mia copertina da casa. “Fa freddo qui e queste coperte dell’ospedale non tengono nulla e poi sono brutte”. Eppure la mia, che lì chiamavano copertina di Linus, era molto più leggera ma l’ha avvolta e protetta come il mantello di San Martino, fino a quando ha smesso di respirare, il 23 marzo.
Il giorno prima ci avevano detto che probabilmente non avrebbe superato la notte e allora decido di passarla con lei. Non ha fortunatamente dolori ma, — mi dicono —, ha tanti pensieri ed è ancora reattiva. E allora iniziano a sedarla un pochino. Un attimo prima delle due, mentre il suo respiro si fa sempre più rantoloso, le faccio una confidenza, le parlo di un desiderio. Lei si gira di scatto e mi fissa. Gli occhi sono bianchi, con le pupille in alto, rivolte quasi all’interiorità. Non so quanto mia zia sapesse guardarsi dentro, non credo si sia posta mai molte domande ma le risposte, certo, non le erano mai mancate. Neanche in questi giorni. Sapeva però affidarsi e andare avanti con determinazione e speranza. Spesso mi sono chiesta se il non essersi mai controllata e l’aver quasi nascosto per più di un anno le perdite di sangue le avesse procurato dei sensi di colpa… Se dietro a ciò si nascondesse paura, praticità o un senso della vergogna. Lei comunque guardava avanti. “A saperlo adesso”, diceva. Ma in fondo, quando in passato ci eravamo confrontate sulla questione, aveva sempre detto che se le avessero trovato qualcosa sarebbe stato quello che sarebbe stato. Chissà… visto che ha provato tutte le terapie possibili, intervento compreso. Nel mentre, arrivano le infermiere e quando scoppio a piangere mi dicono che è meglio che vada fuori a prendere una boccata d’aria. Che fa bene. È da quando sono piccola che tutti riprendono il fatto che io pianga — troppo — (quando a me sembra anormale il contrario) o che non sappiano gestire la situazione, cosa che mi ha sempre fatto provare un grande senso di vergogna. Quella che non sa trattenersi. Ma ora no, non provo niente di tutto ciò e da me viene subito un’altra infermiera ad abbracciarmi e a dirmi che posso stare dentro. Per di più sono anche un po’ stanca di sentirmi dire come si deve trattare una persona a te cara che sta per lasciarti ma, soprattutto, che non è bello farsi veder piangere da chi sta male. Ma che ne sanno di come ci si sente quando si sta per morire? Se vuoi essere visto, toccato, accompagnato o meno? E soprattutto, può essere anche probabile che uno stia peggio se non vede l’altro reattivo, no? Certo, ci sono tanti racconti relativi alle NDE[1] ma noi siamo unici e mi immagino che ognuno abbia reazioni diverse e personali. E che in situazioni simili ognuno faccia quello che può. Il possibile. Perchè non è qualcosa che puoi programmare. Anche se la stessa cosa si ripete, le reazioni non sono prevedibili. Non è poi la stessa cosa che si dice quando si diventa genitori? Ogni nascita è diversa, come ogni morte. Ed è proprio alla nascita che penso quando rientro. Il volto ora sta cambiando, si è allungato, assottigliato, è sofferente. Non vuole uscire da questa dimensione, è aggrappata alla vita come un bimbo all’utero della mamma. Lo stesso organo da dove si è scatenato il conflitto. Me la immagino così uscire neonata, da chissà quale pancia, e in chissà quale altra dimensione, mentre io la vedo andare via da me. E di quel momento, di cui le immagini stanno sfumando, ciò che mi rimane impresso è invece l’odore. Quell’odore indescrivibile, della morte che sopraggiunge di cui già avevo ricordo. Così potente e acre che mi dà lo stesso effetto che hanno su di me le radici: zenzero, cren, ravanelli. Che forse è lo stesso che abbiamo quando nasciamo. Di viscere, di terra. Di rizomi. Ma il cuore poi si stabilizza, la mattina dopo apre gli occhi e mi dice “Ehi, ciao Eva” e io rientro a casa. Quella sera, così come era avvenuto fino a quel momento, nessuna di noi nipoti le farà la notte e alle 22.22 se ne andrà (fra l’altro il 22.2.22 era stata operata). Ho riflettuto molto anche su questo. Sull’esser volata via quando noi non c’eravamo e sulla numerologia. Proprio ieri sera (il 22), durante la meditazione per Carla Futura, eravamo in 24 e Maria Pia Valoti ha detto che è un buon numero. È anche la mia data di nascita ma, dalla parte della mamma, quindi non in questo caso, è una data che si ripete sia per le nascite che per le morti. Speravo quindi che non ci fosse un colpo di scena e, poco prima di salutarla, — dicendo stavolta a lei di non preoccuparsi per noi e di rilassarsi —, avevo pensato che il 23.03.23, fosse perfetto per la sua dipartita e così è stato. Lei, fra l’altro, aveva istintivamente un forte legame non solo con energie invisibili, ma anche con i numeri. Oltre che con la cura e la bellezza, così come ora ci viene raccontato di Carla. Fino alla fine ha voluto vedere cose belle, sentire racconti belli, vedere il gatto e i fiori che stavano sbocciando nel suo giardino, gli Iris viola.
Chiedeva le creme e i massaggi. E profumava di oli essenziali anche quando mi sono chinata per darle un bacio prima che chiudessero la bara. Mi ero raccomandata con Simone, l’addetto al trucco e alla vestizione, il suo immancabile rossetto. E lui, non ne ha scelto uno a caso, ma ha ripreso lo stesso colore che aveva visto nella foto dell’epigrafe. Credo che questo, assieme alla dolcezza e alle attenzioni dei medici, sia stato per me uno dei momenti più toccanti e commoventi. Mi ha fatto ricordare Departures[2], come pure gli Egizi e le loro pratiche funebri, dove profumi, unguenti e aromi facevano da intermediario fra l’uomo e gli dei andando a purificare ogni tappa della vita[3]. La zia profumava di incenso e limonene.
Il 22 aprile è nata Tessa, la bimba di una cara amica. L’ho potuta vedere proprio appena nata perché in quei giorni ero in Accademia a Milano. Si dice sempre che una morte sia accompagnata da una nascita, esattamente come il momento che ho vissuto con la zia. Il suo nome, Tessa, significa “colei che fa la cacciatrice”, ma anche “colei che è nata d’estate” o “che è molto amabile”. Al di là del suo significato, il suono del nome mi riporta inevitabilmente al tessere, alla tessitura. Ad un fil rouge che mantiene in contatto una dimensione da un’altra, il materiale con lo spirituale, l’aldilà con ciò che vi è qua.
Marinella invece significa “colei che viene dal mare” e chissà se è lì che la potrò ritrovare oppure se, come cantava De Andrè, dovrò volgere lo sguardo in alto, verso una stella. Nella Via Lattea generata dal latte dei sogni.
[1] NDE è la sigla dell’espressione inglese Near Death Experience, ovvero esperienze ai confini della morte.
[2] Film del 2008 diretto da Yojiro Takita che narra la storia Daigo Kobayashi, un giovane violoncellista costretto a tornare nella sua città natale dopo lo scioglimento dell’orchestra di cui faceva parte. Per mantenere se stesso e sua moglie, Daigo accetta un impiego come cerimoniere funebre, ovvero colui che compie il rito di lavaggio, vestizione e posizionamento nella bara dei morti per accompagnarli nel trapasso. La sua nuova occupazione non è ben accetta tra parenti e amici, soprattutto da sua moglie, ma il costante contatto con la morte e con coloro che hanno subito la perdita di uno dei propri cari, aiuterà invece Daigo a comprendere quali siano i più importanti legami e valori nella vita.
Di Eva Comuzzi