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Viaggio di connessione: il due che si fa uno

Per virtù del grande demone (che è l’amore) attraverso lo spirito l’anima si congiunge al corpo, attraverso l’anima si congiunge allo spirito una forza più separata e divina, e attraverso un numero più o meno grande di enti intermedi tutte le cose dell’universo sono connesse e concatenate a tutte le altre.
(Giordano Bruno, Sigillus sigillorum, II.5)

“Affinché i nostri bisogni di connessione siano soddisfatti non è necessario stabilire relazioni che si mantengano in uno stato di costante equilibrio. Piuttosto, ciò di cui abbiamo bisogno sono relazioni che siano reciproche.
In realtà, quando entriamo in connessione con qualcuno, sperimentiamo una rottura e troviamo poi una via verso la riparazione, favoriamo la costituzione della nostra resilienza relazionale.
È soltanto quando le rotture non trovano riparazione che il nostro desiderio di connessione crea sofferenza.
Il ciclo di reciprocità, rottura e riparazione costituisce il naturale dispiegarsi delle relazioni sane.” (Deb Dana, Ancoràti)

Connessione deriva da “cum necto”, cioè unire insieme. Non semplicemente accostare o giustapporre, ma collegare con un legame, intrecciare.
Possiamo soffermarci un istante provando ad articolare a bassa voce questi suoni: connessione, cum – necto, poi cumnècto e poi connetto.
Lasciamoli risuonare più volte pronunciandoli e ascoltiamo a che sensazione o immagine ci rimanda ad esempio la coppia di suoni bilabiali “mn” e la coppia di suoni “ct”; proviamo a sentire se sia qualcosa che avvicina la forma di questo lemma al suo significato. C’è differenza tra ciò che percepiamo sentendo i primi suoni, prolungabili quasi come delle vocali, rispetto ai secondi, occlusivi e rapidi nell’esplodere e terminare?

Per molti la connessione non è altro che la possibilità di accedere ad una rete internet. Ma in fondo, se prendiamo questa parola nel suo senso simbolico, essa rappresenta la possibilità di un collegamento; vale a dire che la connessione è qualcosa che ci permette di creare legami e comunicazione, di collegare oggetti, di trovare nessi e quindi anche di recuperare un senso del sentire. Per questo motivo essa rappresenta primariamente la possibilità di esserci, di avere un posto nel mondo e quindi di poter entrare in una dinamica con ciò che ci circonda.

Oggigiorno abbiamo la possibilità di essere sempre “collegati” grazie ai telefoni cellulari, alla rete internet e ai social network, strumenti che rendono evidente il modo in cui abbiamo la possibilità di entrare in contatto con il resto del mondo in qualsiasi momento.
Ma, se anche per un attimo guardi il tuo telefono senza utilizzarlo, sai che quella connessione è possibile, anzi è già in atto. In potenza, potrebbero arrivare ad ogni istante notifiche, notizie, chiamate, messaggi o semplicemente potrebbe comparire sullo schermo un “alert” che ti avvisa di ricaricare la batteria del tuo cellulare, minacciando la disconnessione dal resto del mondo. Ma quando il telefono effettivamente si spegne ed internet non è più la nostra rete, a quale rete ci colleghiamo?

VIAGGI DI CONNESSIONE, PARTE PRIMA: IL PIANOFORTE

Sto frequentando il secondo anno della Scuola IGEA, Scuola di alta formazione fondata dalla Dottoressa Erica Francesca Poli con l’intento di offrire un iter didattico e formativo profondo e interdisciplinare nella promozione della salute, a tutti i livelli, individuale e collettivo, per il singolo, la famiglia, le organizzazioni, pubbliche e private, in una prospettiva ecobioantropologica.

Durante il primo weekend accademico, abbiamo parlato di connessione, intesa come la capacità di percepirsi legati da un filo invisibile a tutto ciò che ci circonda e come possibilità di esserci e manifestare la nostra unicità all’interno di una rete di legami che non ci fa mai sentire soli.

Da quel weekend nella mia vita si sono susseguiti una serie di episodi in cui questa parola tornava con nuovi sensi e significati espansi.
Dapprima la incontrai a Madrid, quando, durante una lezione di perfezionamento pianistico, la mia insegnante (il M°Cristina Cavalli) mi spiegò come lavorare maggiormente sulla capacità di “tenere connesse le dita”.
Era un concetto di cui già mi aveva parlato e mi era chiaro già da tempo a livello mentale, meno a livello corporeo; ai tempi del Conservatorio, la mia professoressa esprimeva lo stesso concetto con la locuzione “tenere le dita armate”, il che mi aveva sempre rimandato a un’immagine di rigidità.
In sostanza, sarebbe opportuno tenere le tre falangi, che compongono ciascun dito e il metacarpo, abbastanza solide e collegate da poter dialogare tra di loro e contemporaneamente con il tasto del pianoforte, senza però irrigidirsi (andando così a bloccare il flusso dell’energia e di cooperazione tra le parti), ma anche senza “smollarsi” (ammortizzando e assorbendo eccessivamente l’energia e la forza del movimento in arrivo, dissipandoli nel tragitto a destinazione, cioè il tasto).

Rimasi folgorata.
Di colpo vidi da un altro punto di vista la connessione studiata nel Narm di Lerry Heller, ma vidi anche il “sistema corpo” e il ruolo fondamentale di snodo della presenza che avevano le articolazioni nel tenere in relazione i vari segmenti degli arti coinvolti nel suonare.
Il M° Cavalli mi aiutò a sentire nel corpo ciò di cui stavamo parlando: col suo dito spinse la punta del mio, opponendo lentamente una lieve resistenza in aumento, innescando una risposta compatta in me. In quel preciso istante si fermò, senza indurmi a spingere o resistere, bensì semplicemente invitandomi, per così dire, a “prendere sostanza”, a prendere voce in quel dialogo silenzioso tra le nostre dita. Successivamente, utilizzai la stessa modalità sugli altri tasti del pianoforte, rendendomi conto, per la prima volta, di quanto poco sforzo fosse necessario per produrre un suono peraltro bellissimo; quante volte spingevo più del necessario, disperdendo moltissima energia e fluidità!
Quante volte questo ci accade nella vita? Ci affatichiamo più del dovuto, pensando che sia necessario molto sforzo per ottenere ciò che desideriamo.
D’improvviso compresi come la connessione non potesse prescindere da quel “polemos”, dall’incontrare attrito nell’altro da sé: come se quell’attrito fosse addirittura funzionale a connettersi. Questo ribaltava tutto: era come vedere un’illusione cadere e il disvelarsi di qualcosa.

VIAGGI DI CONNESSIONE,PARTE SECONDA: IL LINDY HOP

Nel ballo in coppia si danza senza coordinarsi verbalmente. Come fanno i ballerini a muoversi all’unisono, senza darsi il via, rallentando insieme, piegandosi allo stesso tempo, ritrovando contemporaneamente lo slancio, per poi concludere simultaneamente il passo?

Nella musica tutti gli elementi dell’orchestra suonano insieme, guidati visivamente dal direttore, una sorta di simbolo unificatore lacaniano dell’orchestra.

Nella danza, questo elemento connettivo diventa in un certo senso invisibile e, da un altro punto di vista, è mediato da qualcosa di estremamente visibile e tangibile: il corpo e la sua capacità di sentire e vibrare.

Danzando in connessione con l’altro, impariamo a sentire molto meglio persino noi stessi: quando la connessione è salda, i due ballerini si muovono come se fossero una cosa sola.

Quando il leader stabilisce una connessione con la follower, ad esempio tramite una presa avvolgente dietro la schiena, la follower risponde appoggiando la mano sulla spalla del leader e tenendo saldamente sotto al suo braccio il braccio del leader. Se la presa della partner è cedevole, anziché salda, sarà impossibile per il leader entrare in connessione con lei, con il risultato che per entrambi i ballerini diventerà impossibile avvertire gli input dei loro corpi. D’altro canto, se la presa fosse troppo rigida, non ci sarebbe abbastanza gioco per il movimento, e quindi di nuovo risulterebbe impossibile per i loro corpi poter dialogare. 

Per restare dentro un dialogo danzante, che consenta di mettere in scena una danza fluida e armonica, è necessaria una giusta solidità e consistenza, senza essere troppo morbidi, ma al contempo nemmeno eccessivamente rigidi : in entrambi i casi la danza sarebbe compromessa e la comunicazione sarebbe interrotta, annichilita o sequestrata nel suo flusso.

 Le prime lezioni di Lindy hop che ho frequentato erano incentrate quasi esclusivamente sulla tematica della connessione: sentire, sentirsi e trovare la giusta misura nel dialogo corporeo con l’altro. Come cambierebbero le nostre relazioni se ci ponessimo il più possibile con questo tipo di attitudine e attenzione? Come cambierebbe il nostro modo di parlare con gli altri se ce lo figurassimo come una danza di corpi? Tendo a lasciar guidare l’altro, perdendo il contatto reale con lui/lei e lasciandolo da solo a dirigere? Tendo a perdere me stessa? Spingo e soverchio l’altro anche se non è responsivo? Mi irrigidisco e mi oppongo quando l’altro vuole condurmi in un altrove rispetto a ciò che mi ero prefissata?

VIAGGI DI CONNESSIONE, PARTE TERZA: SCHIENE DANZANTI AL REIMPRINTING

Durante il lavoro esperienziale sulle Impronte di nascita si lavora seduti a contatto con il pavimento, la terra, che ci accoglie come una madre: al Centro Phenice della Dottoressa Poli, dove si svolgono le sedute di re-imprinting, c’è un bellissimo parquet che scricchiola ad ogni passo, che viene ricoperto da un morbido strato di coperte in occasione del lavoro sulle impronte.

Il Re-imprinting di nascita è un lavoro corporeo ed emotivo in cui la persona esplora il modo in cui è arrivata al mondo, fa esperienza dei propri schemi di sopravvivenza, le impronte appunto, al fine di ristrutturare nuove connessioni e memorie, fino a ritrovare, per così dire, la propria nota fondamentale, il proprio Sé più puro. Questo processo viene condotto da due facilitatori e sostenuto dal gruppo che rappresenta simbolicamente l’utero materno.

Quando la persona si distende per le fasi centrali del processo, chi facilita si trova ricurvo e chino sulla persona stesa tra le sue gambe.

Di solito una persona sostiene la schiena dell’operatore, sedendosi a incastro dietro l’operatore stesso o, più efficacemente, schiena contro schiena.

Schiene contro? Scontro di schiene? In opposizione? O schiene connesse?

Difficile a dirsi. Si apre un dialogo e una silenziosa negoziazione di appoggi. La pelle ascolta; le cellule diventano come milioni di orecchie. Restare. Riprovare a mediare. Poi d’improvviso arriva un dolore lombare… Ma come? Forse era troppo lo sforzo di capire, accomodare, non cedere: la misura è persa, bisogna ripartire.

Poi, d’improvviso, la dimensione si amplia: sono schiene che si muovono avanti e indietro, ma anche lateralmente, oscillando da destra a sinistra, dapprima in maniera millimetrica, come piccole onde mosse da una dolce brezza, come il canto di una ninna nanna.

Le carezze e il tocco sul corpo del “nascituro” producono una vera e propria danza, cullante e morbida. Anche chi sostiene il facilitatore è cullato e culla a sua volta il facilitatore. Il campo intero si armonizza tra sistole e diastole, inspiri ed espiri, contrazioni ed espansioni, oscillazioni di una nenia interna. Il dolore alla schiena scompare; vi è la certezza di una profonda connessione, sensazione che non potrebbe esistere se evitassimo di appoggiarci l’un l’altro. Alla fine, senza alcuno sforzo, due schiene si muovono all’unisono come fossero una schiena sola: nessun ritardo nel cambio di direzione, nessuna esitazione, persino i respiri si accordano. Identità distinte che si in-contrano.

VIAGGI DI CONNESSIONE, PARTE QUARTA: INCONTRARE L’AVVERSARIO

Qualche giorno fa tenevo in congiunta con una collega un colloquio con una donna che chiamerò D. Ha un giudice interno molto sabotante che le fa credere di non essere mai all’altezza delle situazioni, di avere motivazioni di poco conto in tutto ciò che mette in atto e di essere, in sostanza, un’incapace. Addirittura le impedisce proprio di agire, di trovare e attuare delle soluzioni ai problemi che incontra, bloccando in partenza ogni suo slancio, impedendole in pratica anche solo di provare a realizzare i suoi sogni. Il prezzo che paga sottostando al suo giudice interiore è veramente alto.

Nonostante il lavoro svolto già da alcune sedute, durante le quali lei stessa si è resa perfettamente conto del dispiacere che tutto questo le causa, questa istanza psichica è tornata nuovamente con forza a sabotarla, umiliarla e colpevolizzarla.

Facendo un passo indietro da questa modalità per guardare e notare il modo in cui lei trattava se stessa, è iniziata una sorta di altalena, di lotta o danza tra una parte di lei che era ammaccata e dolorante e l’altra parte che, pur di proteggerla, l’avrebbe vincolata per chissà quanto tempo ancora.

Guardando questa dinamica, abbiamo rivolto l’attenzione a questa sorta di braccio di ferro. Mi colpiva molto come fosse facile per D. tornare a porre l’attenzione alla svalutazione e alle mancanze, dando forza al Super-io, ma allo stesso tempo, non potevamo non notare quanto il Super-io fosse motivato nel suo spendersi così tanto: gareggiava con un’altra forza, non vista, una parte delicata che voleva emergere come a voler mettere la testa fuori dall’acqua per finalmente respirare, tendendo la mano verso di noi. Una forza che non era più disposta a farsi da parte, come sempre era accaduto, e che ora era in grado di tenere testa al Super-io con più compattezza.

Facendo notare a D. questo aspetto, sul suo volto comparvero dapprima sorpresa e stupore, poi, successivamente, un’espressione di gioia, come se finalmente qualcuno si fosse accorto della presenza anche di quella parte di lei così desiderosa di esplorare, scoprire e di darsi la possibilità di tentare, ed eventualmente anche sbagliare, pur di essere libera da catene. Come se finalmente lei avesse visto quel gioco a due nel quale una parte di lei sapeva rispondere agli strali del Super-io. Sul suo viso c’era un’espressione mista di incredulità e rivalsa che lasciava trasparire un messaggio chiaro: “caspita è vero, sono forte anche io!”.

Di colpo, fu subito chiaro quanto questo attrito tra istanze interne della psiche fosse servito non solo a provocare dolore e conflitto, ma anche a favorire un incontro di forze e quindi una profonda connessione con una grande risorsa e voglia di vivere.

VIAGGI DI CONNESSIONE: AD LIBITUM… GIOCA LIBERO DI ASCOLTARE.

In questi viaggi di connessione ho voluto attraversare con Te, caro lettore, i mari della relazione, per esplorare nuovi orizzonti e vedere insieme se in qualche modo  l’incontro con l’alterità possa essere non solo fonte di fatica, fallimento, dolore, ma anche l’occasione di uno stress buono, un eustress. Connessione quindi come un incontro che ci permette di incarnarci sempre di più ed essere presenti a noi stessi attraverso l’incontro con l’altro, sia esso un tasto, un ballerino, un corpo o un’istanza della psiche. Se non ci fosse il vento a sospingerci a volte in direzione contraria alla rotta, non avremmo la possibilità di aggiustare le vele, prendere il timone e governare la barca verso la direzione che desideriamo, anche se richiede un quid di energia che noi chiamiamo fatica; non avremmo modo di manifestare la nostra essenza e intervenire, solcando le acque a volte calme e morbide, a volte agitate e dure, delle correnti, riorientandoci, riconfermando ogni volta a noi stessi “sono qui, ci sono”.

Perciò non resta che dirci, buon viaggio!

di Monica Ferrigno

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